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Sarà finalmente la volta buona? Con il decreto legislativo che giovedì ha ottenuto il via libera del parlamento e che ora attende il varo definitivo in Consiglio dei ministri, la cura "Brunetta" per riformare la pubblica amministrazione realizza un obiettivo importante: introdurre norme più severe per premiare e punire i dipendenti pubblici e per migliorare l'efficienza degli uffici pubblici.

2009-10-05

Ingegneria Impianti Industriali

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2009-10-05

Una legge che vale più dei contratti

di Marcello Clarich

5 ottobre 2009

Sarà finalmente la volta buona? Con il decreto legislativo che giovedì ha ottenuto il via libera del parlamento e che ora attende il varo definitivo in Consiglio dei ministri, la cura "Brunetta" per riformare la pubblica amministrazione realizza un obiettivo importante: introdurre norme più severe per premiare e punire i dipendenti pubblici e per migliorare l'efficienza degli uffici pubblici.

In realtà, già da molti anni il governo e il Parlamento si sono cimentati in questa impresa. E sempre con poco successo.

Già nel 1992, con la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici inserita tra le misure d'emergenza varate dal governo in mezzo a una crisi senza precedenti della nostra moneta (che portò a una "decisa" svalutazione), si parlò di svolta epocale.

In effetti, a rileggere la legge delega di allora (n. 421/1992) e il decreto legislativo di attuazione (n. 29/93) ritroviamo molti concetti presenti nella riforma di oggi.

L'idea di privatizzare il rapporto di lavoro, di accrescere gli spazi della contrattazione collettiva con un negoziatore forte per la parte pubblica (l'Aran) e di attribuire ai dirigenti pubblici i poteri "del privato datore di lavoro" mirava proprio a creare le premesse per sanare i guasti di decenni e decennni di lassismo.

Il mix di misure attese grazie a quella riforma era davvero innovativo.

Il principio del merito per la selezione e la promozione del personale; gli incentivi economici non distribuiti più a pioggia ma legati alla produttività individuale; la mobilità del personale per porre rimedio agli squilibri territoriali (uffici sempre sguarniti al Nord e sovraffollati nel Mezzogiorno); la valorizzazione della dirigenza, limitando il ruolo dei vertici politici alla definizione degli indirizzi e al controllo ex post: questi e altri principi segnarono, almeno sulla carta, un cambiamento radicale.

Nel 1998 le norme furono perfezionate, in particolare, privatizzando anche i dirigenti generali, e attribuendo le controversie in materia di lavoro pubblico al giudice ordinario.

Non fu un percorso facile. Ma la riforma - contestata soprattutto dai dirigenti - passò indenne anche il vaglio della Corte Costituzionale, che invece bocciò i tentativi di introdurre forme estreme di "spoil system" che ponevano i dirigenti alla mercé dei politici.

Che cosa accadde, poi? La verità è che il passaggio da norme così avanzate alla loro realizzazione pratica si è scontrato in tutto questo arco di tempo con ostacoli insuperabili: contratti collettivi che ripristinavano rigidità e azzeravano ogni tipo di incentivi in nome dell'egualitarismo; norme regionali e degli enti locali anch'essa non in sintonia con lo spirito della riforma; mancata attivazione dei meccanismi di valutazione e di responsabilizzazione dei dirigenti; ruolo debordante dei vertici politici restii a fare un passo indietro, convenienza di tutti a mantenere il clima "del vivi e lascia vivere".

In definitiva, pur con qualche eccezione, poco o nulla è cambiato nonostante l'attivismo del legislatore.

Per questo, quando nel marzo scorso il parlamento ha approvato una delega assai ampia per la riforma del pubblicoimpiego(n. 15/2009) poteva sorgere più di un dubbio: perché ripartire quasi da zero con nuove norme, anziché cercare di far applicare quelle esistenti, magari con pochi ritocchi mirati?

In realtà, rispetto ai tentativi precedenti, la legge delega mirava a introdurre per legge vincoli puntuali non derogabili dalle amministrazioni o in sede di contrattazione collettiva proprio allo scopo di impedire snaturamenti in sede attuativa.

Il decreto legislativo non ha potuto però chiudere il cerchio con norme immediatamente operative e ciò anche per rispettare l'autonomia delle Regioni e degli enti locali costituzionalmente garantita.

Così l'applicazione concreta di molti istituti sarà rinviata nel tempo e c'è il rischio che le norme più innovative perdano di incisività nei vari passaggi a valle del decreto.

Ulteriore conferma del fatto che non basta sfornare norme per cambiare i comportamenti e la cultura di milioni di dipendenti e dirigenti pubblici.

5 ottobre 2009

 

 

 

 

 

 

Licenziamenti automatici per gli statali assenteisti

di Sylvia Kranz

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Lunedí 05 Ottobre 2009

Una legge che vale più dei contratti

Il merito pesa fino a 64mila euro

I capitoli del nuovo "codice"

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Il primo capitolo della riforma Brunetta ad entrare in vigore sarà il nuovo sistema disciplinare dei dipendenti pubblici.

Il decreto riporta in ambito legislativo un tema negli ultimi anni lasciato prevalentemente alla contrattazione, introduce nuove sanzioni per nuovi comportamenti censurabili e inasprisce le punizioni già previste dalle regole attuali. Dimezzati, poi, i termini per arrivare alla sanzione, mentre si introduce la regola generale della non sospensione di procedimenti disciplinari quando questi siano legati a processi penali.

Nella fase transitoria convivono entrambe le discipline. In pratica i fatti avvenuti dopo l'entrata in vigore del decreto (15 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) dovranno essere contestati secondo le nuove tipologie; i fatti contestati prima dell'entrata in vigore seguono la disciplina in cui si sono verificati. Ai fatti avvenuti prima, ma contestati dopo l'entrata in vigore, si applicano i nuovi termini e il nuovo iter, ma rimangono le vecchie sanzioni perché più favorevoli.

Le novità più eclatanti arrivano in tema di assenze ingiustificate e per malattia. Fino ad oggi l'assenza ingiustificata dal servizio comportava l'applicazione di sanzioni crescenti in rapporto alla sua durata, in base a una serie di norme tutte abrogate dalla nuova disciplina.

Con la riforma, in caso di assenza ingiustificata per più di tre giorni anche non consecutivi in un biennio, o di sette giorni negli ultimi dieci anni, o infine di rifiuto di riprendere il lavoro nei termini prefissati, è previsto il licenziamento. Dalla lettura della norma, sembra che il conteggio dei giorni vada fatto retroattivamente, e che quindi possano concorrere a far maturare la sanzione anche i giorni già maturati se a suo tempo non sono stati contestati e sanzionati. Il dipendente che timbra il cartellino e poi esce per motivi personali sarà licenziato in tronco: in questo caso, basta una sola assenza per chiudere il rapporto. Una volta accertato il fatto, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari non ha alcun potere discrezionale, perché non si prevede nessuna circostanza "attentuante" in grado di ridurre la sanzione.

 

Delicata l'ipotesi introdotta in caso di insufficiente rendimento. Occorrerà modificare i sistemi di valutazione della prestazione, inserendo parametri oggettivi e predeterminati, per poter stabilire quale grado di rendimento debba considerarsi insufficiente per almeno due anni e, di conseguenza, condurre al licenziamento.

Il nuovo codice disciplinare introdotto con la riforma del pubblico impiego non si limita comunque al licenziamento dei dipendenti assenteisti, ma mette in campo una ricca serie di sanzioni di varia gravità a seconda dei fatti messi nel mirino.

Se violando obblighi lavorativi stabiliti da leggi, regolamenti, contratti o codici di comportamento un dipendente provoca la condanna dell'amministrazione di appartenenza al risarcimento di un danno, è prevista la sospensione da un minimo di tre giorni a un massimo di tre mesi, per un arco di tempo variabile in base all'entità del risarcimento.

Con la sospensione dal servizio fino a tre mesi viene invece sanzionato il dirigente o il responsabile di posizione organizzativa che si macchia di inerzia o sottovalutazione degli elementi che costituiscono un comportamento illecito del collaboratore. La sanzione comporta, solo per chi ha qualifica dirigenziale, anche la decurtazione dell'indennità di risultato del dirigente, per un tempo pari al doppio della sospensione. La durata della sospensione in questi casi è legata alla gravità dell'illecito disciplinare che si sarebbe dovuto avviare o per il quale si sia lasciato scadere anche uno solo dei termini, oggi dichiarati tutti a pena di decadenza. Il rifiuto o l'omissione di collaborazione in un procedimento a carico di un lavoratore della stessa o di altra amministrazione comporta la sospensione fino a 15 giorni.

Queste ultime tipologie sanzionatorie potrebbero comportare un problema di individuazione della competenza del titolare dell'azione disciplinare, ma si propende per l'attribuzione in ogni caso all'ufficio disciplinare, dato che la sanzione massima teoricamente applicabile eccede la competenza del dirigente e può venire oggettivamente determinata solo all'esito del procedimento stesso.

Lunedí 05 Ottobre 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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